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La gelosia morbosa che sfocia in comportamenti ossessivi nei confronti del coniuge e’ reato

La gelosia morbosa che sfocia in comportamenti ossessivi nei confronti del coniuge, quali contestazione di tradimenti inesistenti, ispezione costante del telefono del partner, reiterate richieste di test del Dna sui figli, possono portare alla condanna per maltrattamenti. È il principio stabilito nella sentenza n. 20126/15 pubblicata il 14 maggio dalla sesta sezione penale della Suprema Corte che riporta Giovanni D’Agata presidente dello “Sportello dei Diritti”.

Con la decisione in commento gli ermellini hanno, infatti, accolto il ricorso del Pm contro la sentenza della Corte d’appello di Palermo che assolveva un imputato dal reato ex art. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia) e confermava lo stalking, riducendo la pena inflitta in primo grado a un anno e sei mesi di carcere. L’uomo era stato assolto dal reato di maltrattamenti nel maggio 2014, mentre nei suoi confronti la Corte d’appello di Palermo aveva convalidato la condanna per il reato di atti persecutori.

Per il giudice di merito, l’uomo andava assolto dall’accusa di maltrattamenti in base al fatto che la vita di coppia era caratterizzata da una certa “animosità” e che non si era raggiunta la prova della “consapevolezza” dell’uomo di causare alla moglie “un turbamento psichico e morale”.

Giudizio ribaltato dalla Cassazione che, accogliendo i rilievi della Procura, ha disposto un nuovo esame davanti alla Corte d’appello di Palermo.

La sentenza della Cassazione penale ha statuito che “il Tribunale aveva congruamente rilevato come l’assillare costantemente la congiunta con continui comportamenti ossessivi e maniacali, ispirati da una gelosia morbosa, e tali da provocare in modo diretto importanti limitazioni e condizionamenti nella vita quotidiana e nelle scelte lavorative nonché un intollerabile stato d’ansia quali l’insistente contestazione di tradimenti inesistenti, la ricerca incessante di tracce di relazioni extra-coniugali con ispezione costante del telefono della donna, la verifica degli orari di rientro a casa e il controllo degli spostamenti, nonché le pressioni affinché la persona offesa abbandonasse il mestiere di assistente di volo, certamente sostanzia la situazione di abituale vessazione psicologica” punita dall’art. 572 c.p. “in quanto espressione di un evidente spirito di prevaricazione e fonte di un’intensa e perdurante sofferenza morale“. La decisione sul punto va, pertanto, annullata con rinvio a un’altra sezione della Corte palermitana per un nuovo esame.

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