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Pesca in apnea: Allarme Taravana il male dell’apneista – VIDEO

La pesca in apnea sta diventando uno sport sempre più praticato da chi si vuol dilettare e chi vuol sfidare le prestazioni personali arrivando anche ai propri limiti e oltre. Le conseguenze di performance sempre più allo spasmo stanno causando con maggior frequenza incidenti da decompressione nei praticanti questo sport, in particolare negli apneisti che scendono a quote medio alte, tra i 25 ed i 45 metri.

Al di là di chi adotta metodi sempre più “sofisticati” di concentrazione per garantirsi tempi di durata sempre più lunghi, per la gran parte la metodica di discesa è quasi sempre la stessa: una iperventilazione di superficie, di tempo variabile tra i 2 ed i 4 minuti, quindi una discesa rapida, aspetto sul fondo con tempi compresi tra i 50 secondi ed un minuto e mezzo, quindi risalita più o meno veloce verso la superficie. Il tutto per uno svariato numero di ore di “sotto e sopra”.

L’aumento del numero di pescatori subacquei che adottano queste tecniche e che si spingono “oltre” sta causando anche una crescita di quadri patologici molto gravi con sintomatologia praticamente sovrapponibile alla malattia da decompressione (MDD): emiparesi, paresi, disturbi della visione, dislalia sino all’afasia, danni permanenti anche molto gravi, tanto da rendere definitivamente invalido il malcapitato di turno ed in alcuni casi addirittura morte.

Il quadro clinico definito “TARAVANA” era già conosciuto nel lontano 1947, epoca in cui si hanno le prime documentazioni su disturbi neurologici, a volte anche mortali, che colpivano i pescatori di perle Polinesiani delle isole Tuamotu, i quali effettuavano da 40 a 60 immersioni al giorno ad una profondità variabile tra i 20 ed i 42 metri. Questi scendevano verso il fondo con un peso tra i piedi, e risalivano arrampicandosi su di una fune a cui, da un lato, era ancorato il cesto per la raccolta delle perle mentre dall’altro il “pearls diver” era collegato con l’imbarcazione in superficie, da dove un barcaiolo recuperava e il cesto e il subacqueo, a forza di braccia.

La discesa era di durata variabile tra i 30 e i 60 secondi, con un tempo totale d’immersione intorno ai 100 sec. (1.40 minuti), ed intervallo di superficie, tra una immersione e l’altra, di 1-2 minuti. Molti di questi pescatori di perle hanno presentato un grave quadro clinico che nella loro lingua è chiamato appunto Taravana, caratterizzato da disturbi comportamentali associati con uno scadimento delle condizioni generali.

I sintomi del Taravana sono sovrapponibili a quelli della Malattia da Decompressione. Infatti immediatamente dopo l’emersione, i sub possono sviluppare un quadro caratterizzato da emiparesi sino alla paralisi, disturbi della visione, perdita dell’udito, vertigini, ed in alcuni casi morte. La maggior parte dei sub sopravvissuti hanno presentato poi danni permanenti sia a livello cerebrale che del midollo spinale.

Sebbene il Taravana sia una forma di MDD, ci sono alcune caratteristiche che non combaciano con l’MDD e sono state ipotizzate altre cause etiopatogenetiche, come l’ipossia. Lo stesso quadro clinico è stato osservato nelle pescatrici di perle “AMA” Giapponesi e Corean. Se i casi più eclatanti riguardano i professionisti dell’apnea profonda, non bisogna sottovalutare le decine e decine di dilettanti che ogni giorno, soprattutto in questo periodo dell’anno subiscono incidenti o addirittura muoiono a causa delle conseguenze della taravana.

Molti pazienti, potrebbero però subire effetti meno drammatici se le ASL delle province rivierasche fossero dotate di un numero adeguato di camere iperbariche tutte funzionanti. Cosa che, per esempio, sottolinea Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, non accade in quella di Lecce, dove la camera di decompressione presso l’Ospedale di Lecce risulterebbe da tempo guasta, mentre una sola, quella di Gallipoli, sarebbe operante in una provincia che ha conosciuto in quest’estate che volge al termine un afflusso turistico di centinaia di migliaia di presenze, e con essa centinaia di apneisti. Il nostro, quindi, è un invito alla sanità in genere di dotarsi preventivamente o riparare quelle già esistenti di queste “macchine salvavita”, che possono servire a ridurre drasticamente le vittime e le più gravi conseguenze per moltissimi pazienti.

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